Value Based Healthcare e accesso alle cure

Gruppo di Studio Fondazione Smith Kline “Misurare il valore delle nuove terapie attraverso i PROs”
Fondazione Smith Kline, Verona
Tendenze nuove, Numero Speciale 2020; 27-37: DOI: 10.32032/TENDENZENS202003.PDF

 
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Tempesta perfettaè la locuzione a cui si ricorre per indicare l’esplosione di un fenomeno che eccede la nostra capacità di controllo, essendo alimentato da forze opposte e concomitanti, alcune delle quali in sé innocue, ossia tali da non imporre preventive corse ai ripari. Allorché queste forze convergono tutte insieme, ecco la tempesta perfetta. 

Questa metafora, oggi, esprime con successo la condizione dei servizi s anitari caratterizzati dal drastico innalzamento del bisogno assistenziale a fronte di risorse gestionali, tecniche e umane limitate. L’invecchiamento della popolazione, la progressiva tendenza alla cronicizzazione di patologie un tempo fatali, l’aumento dei costi associati all’innovazione, aspettative crescenti da parte dei consumatori, la recente diffusione di entità nosologiche per le quali ancora non si possiedono opzioni terapeutiche definitive, sono solo alcuni dei fattori che incidono sulla domanda di salute e sulle relative strategie di risposta. Mutano, così, in relazione agli scenari, i paradigmi concettuali di riferimento: la tradizionale verifica di efficacia, qualità e sicurezza di un trattamento esige ormai di trovare naturale compimento nel valore di interventi multidisciplinari, misurabili e coerenti, tarati sulle esigenze del cittadino, che cessa di essere il terminale passivo dell’offerta di cura per diventare co-costruttore del percorso di salute. Si espande di conseguenza anche il raggio d’azione dell’Health technology assessment (HTA) che, da valutazione multiprospettica finalizzata all’adozione di una nuova tecnologia, diviene reassessmentdei beni sanitari già a disposizione diretto a discriminare tra pratiche buone, superflue e dannose. È infatti opinione diffusa, tra gli analisti dei sistemi sanitari, che il primo passo nella costruzione di una medicina basata sul valore sia disinvestire da pratiche inefficaci, il cui beneficio non valga il costo sostenuto.

Low value care: contro la sostenibilità dei servizi sanitari

Un rapporto dell’Organizzazione per la coordinazione e lo sviluppo economico (OCSE) del 20171, nel tracciare gli sprechi connessi all’erogazione delle cure, considera allarmante che almeno un quinto della spesa sanitaria dei Paesi membri* non apporti alcun contributo ad outcomedi salute considerati rilevanti. Stando ai dati pubblicati, più del 10% della spesa ospedaliera servirebbe a correggere errori medici prevenibili o infezioni contratte durante il ricovero; un bambino su tre nascerebbe con taglio cesareo, raccomandato dalle linee guida in non più del 15% dei casi; il ricorso ai farmaci generici, che potrebbe generare guadagni riallocabili altrove, sarebbe ancora estremamente difforme, con un range che oscilla tra il 10% e l’80%, da imputare sia alle condotte prescrittive del clinico sia alle preferenze di acquisto del paziente; elevate percentuali di accettazioni nei servizi di emergenza e urgenza riguarderebbero condizioni trattabili sul territorio o dal paziente stesso; evidenti disparità nelle prescrizioni antibiotiche rivelerebbero un eccesso di consumo propizio solo al dilagare della resistenza antimicrobica. Sul versante strettamente clinico, l’erogazione di servizi a “basso valore” è spesso la conseguenza di uno scarso adattamento professionale alle mutate richieste del contesto: ne sono un esempio le resistenze del clinico a modificare pratiche obsolete in linea con le nuove evidenze; la diffusione della medicina difensiva, guidata dalla paura del contenzioso e risultante nell’eccesso di medicalizzazione; le aspettative degli stessi pazienti, per i quali non fare niente o fare pocoequivarrebbe, in alcuni casi, a non trattare affatto; non ultimi gli incentivi economici premianti sulla base del numero dei pazienti in cura o dei servizi erogati (fee for services). Sul piano operativo, il rischio di interventi a “basso valore” aumenta laddove le risorse umane e tecniche (farmaci, dispositivi, dotazioni ospedaliere e ambulatoriali) necessarie alle prestazioni sanitarie siano acquistate a prezzi troppo alti, o in quantità superiore al loro utilizzo o, ancora, al posto di alternative meno costose e ugualmente efficaci. Sul piano gestionale, risorse eccessive sono invece assorbite da procedure duplicate, competenze sovrapposte, e dalla raccolta dati fine a sé stessa, ovvero incapace di tradursi in strumenti di verifica e monitoraggio. Si noti come il rapporto OCSE non entri nel merito della quantità di risorse allocate, ma di quelle che potrebbero essere liberate dall’utilizzo appropriato delle tecnologie già a disposizione. In coerenza con la posizione OCSE, il Rapporto Gimbe sulla sostenibilità del Servizio sanitario nazionale 2016-20252 si spinge oltre, rilevando che la crisi del sistema non è «di natura squisitamente finanziaria, perché un’aumentata disponibilità di risorse non permetterebbe comunque di risolvere alcune criticità ampiamente documentate nei Paesi industrializzati», ovvero:

• estrema variabilità nel ricorso a servizi e prestazioni sanitarie;

• effetti avversi dell’overtreatment;

• diseguaglianze nell’accesso a servizi e prestazioni dal valore elevato;

• mancanza di strategie adeguate di prevenzione;

• gli sprechi, che si annidano a tutti i livelli.

Secondo il report, i dati relativi al 2015 attestano un’erosione di 24,73 miliardi di euro imputabile a «sovra-utilizzo, frodi e abusi, acquisti a costi eccessivi, sotto-utilizzo, complessità amministrative, inadeguato coordinamento dell’assistenza». Inoltre, non solo non esisterebbe alcuna evidenza in letteratura che metta in correlazione alti investimenti e migliori outcome3; sembrerebbe, invece, che all’aumentare della disponibilità finanziaria, i benefici, dopo un’iniziale fisiologica impennata, si appiattiscano gradualmente; considerata, invece, la progressione lineare dei rischi, sarebbe spiegato il razionale alla base del detto “sometimes, less is more”4.

Verso una definizione della Value based healthcare

Il termine valuesi fa strada nel dibattito scientifico dei primi anni 2000 con le teorizzazioni di Michael Porter ed Elisabeth Teisburg. Secondo i due autori, le varie proposte di riforma dei sistemi sanitari falliscono per il fatto di poggiare tutte su una falsa premessa che essi criticano e rettificano: lo scopo dei servizi sanitari non è minimizzare i costi, ma offrire valore al paziente, ovvero un incremento di salute in cambio di investimenti (better health per dollar spent). È necessario, dunque, uscire da un tipo di competizione a somma zero, in cui il guadagno di una parte si ottiene erodendo il vantaggio delle altre, per passare a un sistema in cui istituzioni, management, industria farmaceutica, clinici e reparti ospedalieri, traggano tutti vantaggio dal raggiungimento del medesimo obiettivo5. L’obiettivo è appunto il valore per il paziente, desumibile non dall’esattezza delle procedure, dalla fedeltà ai protocolli e dalla messa in campo dell’intero arsenale tecnologico, ma dalla valutazione degli esiti lungo tutto il ciclo di cura: sopravvivenza, grado di recupero rispetto alle condizioni pregresse, durata del ricovero e tempo impiegato per il ritorno alla normalità, complicazioni dovute al trattamento, numero delle recidive, effetti a lungo termine dei trattamenti6.

Un’ulteriore articolazione del concetto di valore è stata proposta da Sir Muir Gray per dare conto dei tre livelli a cui esso può perseguito e realizzato7:

• Dimensione allocativa.Identifica le modalità di allocazione delle risorse in sanità, considerando il loro impatto sulla salute per sottogruppi di popolazione (individuati, per esempio, in base a età, fattori di rischio, severità della malattia), aree terapeutiche (oncologia, salute mentale, malattie cardiovascolari, ecc.) e specifici bisogni clinici (chirurgia, riabilitazione, assistenza domiciliare, ecc.). Tra gli ostacoli alla valorizzazione delle risorse in questo ambito figurano: allocazione per fattori produttivi (personale, farmaceutica, beni e servizi, ecc.) e non per programmi o percorsi; scelte eterogenee determinate dalle autonomie locali; scarsa implementazione di reti e percorsi interaziendali.

• Dimensione tecnica.Identifica il grado di efficienza tecnica di servizi e prestazioni sanitarie, il cui valore può essere aumentato disinvestendo da tecnologie che consumano risorse senza migliorare gli outcome(servizi diagnostici invasivi e non necessari, duplicazione dei trattamenti, interazioni farmacologiche, sovra-utilizzo del personale medico e infermieristico). Gli ostacoli all’aumento di valore in questa dimensione sono: carenza di organizzazioni indipendenti preposte sia a sintetizzare le migliori evidenze, «sia a definire il valore delle differenti opzioni diagnostico-terapeutiche, oggi spesso in balìa di autoreferenzialità professionali non scevre da conflitti di interesse»2; inadeguatezza dei sistemi informatici nella rilevazione sistematica degli outcome, in particolare quelli a medio e lungo termine; disomogeneità e parzialità delle politiche di disinvestimento e riallocazione.

• Dimensione individuale.Identifica la necessità di integrare le migliori evidenze con le preferenze, i valori e le aspettative del paziente. Gli ostacoli al riconoscimento del valore in questa dimensione sono: resistenze del clinico ad abbandonare il modello paternalistico per favorire il processo decisionale condiviso; assenza di strategie coordinate di evidence-based patient information; aspettative irrealistiche dei cittadini che alimentano a dismisura pratiche consumistiche e contenzioso legale.

Ancora più estensiva risulta l’analisi condotta dell’Expert Panel on effective ways of investing in Health(EXPH)8, istituito nel 2019 dalla Commissione europea per definire corsi di azione e strategie di diffusione della Value based healthcare, intesa come concetto multidimensionale costruito su quattro pilastri (four value pillars): in aggiunta alle tre dimensioni individuate da Gray, emerge la crucialità di interventi sanitari che contribuiscano alla coesione sociale, facendo leva su partecipazione, solidarietà, rispetto reciproco, equità e riconoscimento della diversità (societal value). L’EXPH considera il quarto pilastro la prospettiva dalla quale governare le interrelazioni tra gli altri tre, i quali, attenendo a domini diversi, sono suscettibili di entrare in contraddizione. Sono le visioni su cui si fondano le società, espressione di culture diverse, a stabilire la priorità tra gli obiettivi di salute, siano essi raggiunti attraverso l’eccellenza tecnologica, l’incoraggiamento all’autodeterminazione del singolo o lo sviluppo di politiche solidali9. La dimensione sociale dell’assistenza, inoltre, invita a considerare i cittadini come individui in carne ossa anziché astrazioni prive di realtà. È noto per esempio che i pazienti, nella valutazione dei benefici di un trattamento, includono anche aspetti non clinici, quali la durata del trattamento, la percezione di un proprio coinvolgimento nel percorso terapeutico, il ritorno alle attività quotidiane e la recuperata produttività economica. I desideri e le aspettative di un soggetto sano, inoltre, differiscono sensibilmente da quelli di chi è malato, così come la capacità diempowermentdi chi percepisce un certo reddito non è la stessa di chi vive in stato di deprivazione. Altre differenze sono connesse alla fase della vita in cui l’individuo ha bisogno di assistenza, al tipo di patologia che lo colpisce, alle caratteristiche del territorio in cui è trattato. A livello di decision making, dunque, affinché si possano liberare risorse ostaggio di pratiche obsolete e discriminatorie, è richiesto il passaggio da un modello assistenziale “input driven”, in cui alle innovazioni introdotte non corrisponde alcun sensibile miglioramento degli outcome, a un modello “fit for purpose”, ossia studiato per ripensare ai percorsi in relazione a esiti di salute significativi per il paziente.

HTA: dall’assessment dell’innovazione alla rivalutazione della pratica medica

Per disinvestimento sanitario si intende la dismissione, parziale o completa, di una tecnologia, sia essa una procedura, un farmaco, un dispositivo medico, un intervento chirurgico, un protocollo terapeutico, caratterizzata da un rapporto costo-beneficio che la qualifica come inefficace e dispersiva di risorse10. Il processo valutativo in base al quale una tecnologia viene adottata o rimossa dall’uso medico costituisce l’essenza “rivisitata” dell’Health technology assessment. Nel caso dell’adozione, infatti, l’HTA getta un ponte tra il mondo della ricerca e quello del policy making, evidenziando le conseguenze economiche, cliniche, legali, etiche e sociali dell’introduzione di una nuova tecnologia nella pratica clinica; quando invece si tratta di disinvestire, il ponte è gettato tra i policy maker e il bisogno “reale” del paziente, in modo che sia l’analisi degli outcomedi salute a discriminare tra interventi costo-efficaci e low value care. Il processo di re-assessment di una tecnologia non differisce nei modi e nei principi da quello che conduce alla sua adozione, cambia tuttavia l’insieme di evidenze disponibili da cui attingere per giungere alle relative conclusioni: le mutate caratteristiche del contesto, la disponibilità di nuove prove di efficacia e sicurezza clinica, il confronto con alternative terapeutiche equivalenti o superiori a minor costo, le preferenze dei pazienti, la variabilità clinica nei percorsi di cura per una medesima patologia, lo scostamento tra pratica clinica e linee guida, l’utilizzo di una tecnologia per indicazioni diverse da quelle per cui è raccomandata.

Una differenza sostanziale, però, esiste ed è data dalle resistenze che la rimozione di uno strumento suscita nei suoi utilizzatori tradizionali:

• Loss aversion, traducibile con paura della perdita: è infatti riconosciuto11 che pazienti e clinici tendono a percepire un maggiore svantaggio dalla rimozione di accesso a una tecnologia esistente che dalla mancata introduzione di una nuova tecnologia di simile valore;

• Eterogeneità degli outcome:la determinazione dell’uso ottimale di una tecnologia deve riflettere la molteplicità dei fattori che concorrono a stabilirne il beneficio o l’inutilità per il paziente; tra questi figurano anche le caratteristiche che stanno alla base di diverse risposte individuali, cosicché, anche quando una tecnologia risulti poco efficace per la maggior parte della popolazione, deve continuare a essere garantita nei casi in cui funziona;

• L’abitudinea utilizzare una tecnologia può determinare la forma mentisdel clinico che, educato al suo utilizzo, la considera parte integrante della propria pratica e identità professionale;

• Necessità di evidenzeche provino lo scarso beneficio di una tecnologia o comunque l’assenza di rischio di una sua rimozione dalla pratica clinica. Sembra infatti che servano maggiori prove a supporto del disinvestimento che di qualsiasi altra decisione sull’utilizzo di una tecnologia, come se questa, una volta entrata nella pratica clinica, si fosse guadagnata un posto di diritto12. Nell’identificazione delle risorse suscettibili di essere liberate e reinvestite, l’analisi comparativa (benchmarking) gioca un ruolo cruciale. Il confronto sistematico tra i rapporti costo-beneficio delle diverse alternative terapeutiche consente, infatti, di superare la sovrapposizione concettuale tra disinvestimento e razionamento, essendo il processo decisionale diretto non a tagliare ma canalizzare la spesa. Uno studio condotto nel 2007 in Regione Toscana, ha dimostrato che il rispetto della best practicevalutata in base a 11 indicatori di efficienza performativa di ospedali, territorio, servizi farmaceutici, e managementdelle risorse umane, consentiva un recupero del 2-7% del budget totale annuo13, a dimostrazione di come l’innalzamento dei livelli di qualità determini in molti casi un contenimento dei costi, e la condivisione di strategie di prioritarizzazione degli interventi costituisca un driver efficace di azioni virtuose e sostenibili.

A oggi, numerose campagne nazionali e internazionali insistono sul fatto che fornire servizi e trattamenti non necessari espone i pazienti e gli operatori a rischi e costi evitabili, riduce le risorse disponibili per altre persone, e genera tutta una serie di complicanze, dalla perdita di produttività all’esperienza di vissuti dolorosi, quantomeno ingiustificate. Tra le più note figurano14:

• Choosing Wisely:iniziativa dell’American board of internal medicine (ABIM) che ha invitato le società scientifiche a indicare cinque prestazioni sanitarie che medici e pazienti dovrebbero mettere in discussione perché a rischio elevato di inappropriatezza. In Italia un’iniziativa analoga è stata lanciata da Slow Medicinecon il progetto Fare di più non significa fare meglio.

• Too Much Medicine:campagna del British Medical Journalfinalizzata a sensibilizzare professionisti e pazienti sui rischi clinici ed economici dell’eccesso di medicalizzazione; tutti gli articoli pubblicati sulla rivista sono archiviati in una sezione dedicata.

• Progetto Middir(Methods for investments/disinvestments and distribution of health technologies in Italian regions): finanziata dal Ministero della Salute e coordinata dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas), la ricerca si prefigge di garantire equo accesso alle innovazioni t ecnologiche, dismettendo quelle obsolete, attraverso un’attenta analisi delle risorse disponibili, dei bisogni della popolazione, delle pratiche cliniche e organizzative locali.

Garantire l’efficienza dei sistemi sanitari, a livello clinico, gestionale, e produttivo, richiede l’assunzione di grandi responsabilità e il coraggio di operare scelte impopolari per il conseguimento del maggior bene possibile. L’HTA fornisce le evidenze scientifiche a supporto del decision making anche in questa nuova fase della medicina, in cui essa prende coscienza dei propri limiti, ma anche delle proprie possibilità di sussistenza, fa chiarezza sui propri obiettivi senza confonderli con quella della politica, dell’economia e del diritto, e si riappropria della vocazione originaria: la tutela della vita e il sollievo dalla sofferenza, nel rispetto della libertà e della dignità della persona, senza discriminazione alcuna15. Il costo del valore: alcune riflessioni sul value based pricing (VBP) Il concetto di valore occupa un posto di rilievo anche nelle riflessioni del payer chiamato a stabilire il giusto prezzo da sostenere in cambio di benefici aggiuntivi non reperibili altrove. Compito tanto più difficile in un contesto in cui la crescente disponibilità delle cosiddette me too drugs testimonia del rischio di confusione tra reale innovazione e prodotti che aggiungono minimi, se non nulli, benefici alle opzioni già acquisite. Esistono diverse strategie di pricing cui le industrie farmaceutiche possono ricorrere in ottemperanza alle normative dei Paesi acquirenti. Quelle basate sulla somma dei costi di produzione e del margine, sulla valutazione dell’efficacia clinica e del rapporto costo- efficacia, e sul benchmarking internazionale, sono le più diffuse. Negli ultimi anni, in linea con la rivoluzione concettuale che ha investito i servizi sanitari, si è cominciato a parlare di Value based pricing, strategia commerciale che collega il prezzo di un farmaco al valore che promette di realizzare. Il principio economico sotteso è l’incentivo, per i produttori, a investire in reale innovazione in cambio di maggiori guadagni. I teorici concordano sull’importanza di stabilire tecniche di pricing che garantiscano un riconoscimento economico al lavoro dell’industria e riflettano la prospettiva del paziente, il cui interesse precipuo è il miglioramento del proprio stato di salute. Ma la distorsione alla base dei meccanismi di remunerazione in quest’ambito, essendo la willingness to pay situata in un terzo pagatore, non nel paziente, rende necessario stabilire criteri condivisi su cosa si intenda per valore e su come si valuti l’opportunità di investire in un servizio sacrificandone altri8. Non tanto di negoziazione dei prezzi si dovrebbe parlare, dunque, quanto di deliberazioni scientifiche condotte tra le imprese, le agenzie di HTA e gli stakeholder coinvolti, su cosa sia davvero innovativo, quali e quanti pazienti ne possano beneficiare, e dove si trovi il giusto compromesso tra il profitto spettante ai produttori e il guadagno per la società16. Come sottolineato dalla Lancet Commission on essential medicines, la affordability (accessibilità) di un prodotto o un servizio è talmente distinta dal suo valore intrinseco che un farmaco innovativo che si dimostrasse superiore a tutte le alternative considerate, anche in termini di cost-effectiveness, potrebbe comunque rimanere inaccessibile, perché il prezzo è troppo alto in relazione alle risorse disponibili17. Un sistema di Value based pricingche volesse idealmente affermare, sul lato del mercato, i principi essenziali della Value based healthcaredovrebbe poggiare anch’esso sui medesimi pilastri e consentire alla dimensione sociale di una tecnologia (maggiore salute per la comunità) di moderare i costi connessi all’innalzamento di valore conseguito in quella personale (valore per il paziente), allocativa (investimento in ricerca e sviluppo) e tecnica (valore performativo della tecnologia), in modo tale che il profitto, legittimamente esigibile per gli sforzi profusi, non comprometta proprio quel valore che intende realizzare.

Conclusioni

La crisi di sostenibilità che affligge i servizi sanitari globali, spesso imputata a pressioni di carattere eminentemente economico, è invece il frutto di una serie di distorsioni impresse alla pratica clinica da eccesso di burocrazia, pendenze legali, sovraccarico di responsabilità, conseguente assottigliamento dell’autonomia professionale, dispersione delle risorse, e sistemi di procurementnon competitivi, a testimonianza di come i processi di aziendalizzazione, anziché riformare i servizi nell’ottica di efficienza, efficacia e qualità, abbiano più che altro alterato l’originaria connessione tra bisogno assistenziale, erogazione di cura e risultato per il paziente. Mettere in discussione un sistema coartato, più che guidato, da norme, vincoli, linee guida e raccomandazioni non sempre in accordo tra loro, non significa affatto consegnarlo all’anarchia procedurale, ma restituirgli un’identità fatta di evidenze scientifiche da una parte e di esigenze individuali dall’altra. Il recupero della dimensione valoriale dell’assistenza riporta allora su un terreno comune le diverse istanze da cui è essa attraversata e le connessioni interdisciplinari su cui si sostiene, impedendo che tecnica, diritto, economia e politica si contendano il primato fondativo dell’intero comparto e subordinino a obiettivi parziali la realizzazione del maggior bene conseguibile per l’individuo e collettività.

Bibliografia

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2. Rapporto sulla sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale 2016-2025. Fondazione Gimbe: Bologna, giugno 2016. Disponibile a: www.rapportogimbe.it. Ultimo accesso: 26 aprile 2020.

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9. Atun R on behalf of the working group on “Creating Value in European Healthcare”. Incorporating Value in Investment Decisions in Health across Europe. 2019. https://www.medtecheurope.org/wp-content/uploads/2019/06/2019_MTE_ incorporating-value-in-investment-decisions-in-health-across-Europe.pdf

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Gruppo di Studio Fondazione Smith Kline
“Misurare il valore delle nuove terapie attraverso i PROs”

• Massimo Andreoni, Università Tor Vergata, Roma;
• Andrea Antinori, IRCCS Spallanzani, Roma;
• Giovanni Apolone, Fondazione IRCCS Istituto Nazionale Tumori, Milano;
• Elio Borgonovi, CERGAS, SDA Bocconi e Fondazione Smith Kline;
• Cinzia Brunelli, Fondazione IRCCS Istituto Nazionale Tumori, Milano;
• Oriana Ciani, CERGAS, SDA Bocconi;
• Antonella Cingolani, Università Cattolica del Sacro Cuore, Policlinico “A. Gemelli”, Roma;
• Lucio Da Ros, Fondazione Smith Kline;
• Claudio Jommi, CERGAS, SDA Bocconi;
• Simone Marcotullio, Consulente Socio Sanitario;
• Paolo Rizzini, Fondazione Smith Kline;
• Stefano Vella, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma.

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